Śūnyatā e Manjushri – Le muse di Valorel
Introduzione
Ciao, io sono Alessandro e questo è Valorel.Un canale dove si parla del valore relazionale.
Mi trovi anche su Spotify, cercando Valorel Podcast. E c’è una sorpresa alla fine di questo contenuto. Quindi ti consiglio di seguirlo per intero.
Oggi ti parlo dei principi che fanno da musa ispiratrice di questo canale. Sigla.
Nessun valore intrinseco. Cos’è l’ignoranza?
Hai mai provato a fare finta che niente e nessuno abbia valore di per sé?
Hai mai provato a fare finta che il valore, qualsiasi valore, sia un’apparenza impermanente, basata su sinergie momentanee?
Forse ti fa piacere sapere che alcune scuole buddhiste lo fanno da secoli, perché secondo loro l’ignoranza non è tanto, quando non sai una cosa.
L’ignoranza è quando attribuisci così tanto valore a qualcosa o a qualcuno, da non vedere più i contributi che vi afferiscono, dalle sue sinergie, dalle sue relazioni.
Ecco che fare finta che qualcosa o qualcuno, non abbia alcun valore in sé e per sé, stimola curiosità rispetto a quei contributi, quelle sinergie, quelle relazioni, che vi afferiscono valore.
Ed ecco perché i miei canali si chiamano, Valorel, Il Valore RelazionAle.
E’ un poco un tributo a questo aspetto della loro mentalità, col quale mi sento affine.
Manjushri
Se guardi sul logo del canale, noterai che all’altezza della fronte del mio avatar, appare una figura simbolica, della cultura orientale.
Si chiama Manjushri ed è un bodhisattva.
Una sorta di santo. Quindi è una persona che ha già raggiunto la liberazione.
E pur avendo la possibilità di interrompere il suo ciclo di morte e rinascita, una interruzione chiamata Nirvana, Manjushri ci rinuncia, mosso da compassione verso gli altri esseri senzienti.
E allora continua a reincarnarsi, e perciò anche a soffrire, allo scopo di aiutare gli altri esseri senzienti a liberarsi.
Ma liberarsi da cosa? Ma dalla sofferenza.
Liberarsi dalla sofferenza, non dal dolore. Perché è un distinguo utile?
Perché il dolore lo senti adesso e tra un secondo è andato via.
La sofferenza invece tende a disfare i bagagli dentro di te, e a prendere la residenza.
E perciò la sofferenza diventa condizionamento.
- Detto questo, cosa posso dire di Manjushri, chi è?
- Un buon samaritano?
- Un paladino della lucidità mentale?
Per me Manjushri è più un pro memoria, una scorciatoia verso significati articolati, quindi un simbolo degli stessi.
Manjushri per me è un’euristica.
Uno dei motivi per cui mi fa simpatia è che è un bodhisattva irato.
E’ un borderline in una cultura molto legata al concetto di non-violenza, quale è la cultura buddhista.
Sembra che Manjushri non possa proprio trattenere la sua ira perché, in qualche modo, fa parte della sua energia più profonda.
Reprimerla sarebbe controproducente.
E allora la sua ira acquisisce una funzione, un’intenzione, uno scopo, ed è rappresentata dalla sua spada, che è votata a distruggere l’ignoranza.
Distruggere quell’ignoranza intesa come attaccamento a una qualche verità impermanente.
Secondo quel meraviglioso principio per cui la mappa di un territorio è una cosa ben diversa dal territorio.
O secondo un altro principio a me molto caro, secondo cui la verità è la madre degli imbecilli.
Quindi io provo una grande simpatia per la figura di Manjushri.
Il quale, nello sforzo di risolvere delle forti tensioni interne, si ritrova a svolgere un compito così importante.
- Distruggere l’ignoranza perché è la causa della sofferenza e quindi dei condizionamenti.
- Distruggere concetti e credenze, per compassione.
Che non è compatire, ma è comprendere la condizione altrui. Ed esserne pure in qualche modo partecipe.
- Distruggere blocchi mentali, rigidità e prese di posizione, per favorire la vita, lo scambio di informazioni, le interconnessioni, il fluido evolversi dei processi.
E non per vocazione mortifera!
E senza mai fare quell’errore atroce, di prendersi troppo sul serio!
Perché li è un attimo e la spada diventa un manganello. E dove il manganello picchia, l’ignoranza cresce.
Infatti mi piace immaginare Manjushri, dotato di una caustica ironia e auto-ironia! Dotato di quell’umorismo rivelatore di contesti impliciti.
Śūnyatā – Vacuità
Questo guardare alle cose, non come prive di valore, attenzione! Ma come prive di valore intrinseco, nella cultura buddhista è detto Śūnyatā.
Che tradotto suona un poco come vacuità.
E se serve fare questo esercizio, cioè guardare alla vacuità delle cose, per riuscire a conservare la lucidità della propria mente,
allora come si fa a conservare la stessa lucidità guardando all’essere umano,
dal momento che esso tende ad attribuirsi un valore intrinseco, che chiama sé, anima, ātman?
Come lo identifichiamo quel punto al centro del cerchio, se il cerchio è l’essere umano?
Come ci comportiamo rispetto al fatto che, se non fosse per la circonferenza che lo circonda, noi non saremmo minimamente capaci di accorgerci dell’esistenza del centro, né di avere la minima idea da dove cominciare a cercarlo?
Un tale in passato ha proposto di chiamarlo, “non-centro”. Perché il centro non è che esista in sé e per sé.
E quindi chiamarlo non-centro è uno stratagemma, per evitare di attribuire a quel punto in mezzo alla circonferenza, una entità, una istituzionalizzazione, un’identità, una etichetta.
- Ha proposto di chiamarlo non-centro per potersi ricordare che quali che siano i nomi e gli attributi che gli conferiamo, lo facciamo per convenzione, attraverso un atto convenzionale.
- Ha proposto di chiamarlo non-centro per evitare di inventarsi un “Centro” con la C grande, che nella realtà non trova riscontro neanche a cercarlo coi cani.
- Per evitare di confondersi rispetto alla realtà di quel centro, la quale è semplicemente un’astrazione.
Ma per precise che siano le spiegazioni che ha dato quel tale, rimaniamo esseri umani con dei bisogni da soddisfare.
Per cui prima o poi saltano fuori altri tizi o da soli o in gruppo, che prendono il significato di quell’ astrazione, la mettono sotto steroidi, e la propongono al un pubblico in modo da trarne un profitto.
E si badi bene, il problema non sta nel trarne profitto, ma nel mettere le astrazioni sotto steroidi.
Quindi ci ritroviamo con questi personaggi e i loro megafoni che vanno in giro dicendo:
“Il centro vale di più della circonferenza”!
E qualcun altro risponde con un altro megafono
“No è la circonferenza che vale più del cerchio”!
E un altro ancora
“Vi sbagliate tutti, è il foglio in cui sono disegnati a fare veramente la differenza.
E poi se ne aggiunge un quarto che dice:
“E la geometria nel suo insieme allora dove la mettete, cosa sarebbero il foglio, il punto e il cerchio se non ci fosse la geometria”!
E allora ecco che arriva il quinto col suo concetto di non-centro:
“Calmi! Calmi tutti! Di per sé, qui nessuno conta un cazzo, è chiaro? Me compreso! Quindi sul valore nostro e delle cose, bisogna che negoziamo di volta in volta, tenendo conto anche del contesto”.
Ed è qui che di solito, quelli che prima litigavano fra loro si mettono d’accordo, puntano tutti il dito contro quest’ultimo a dichiarare:
“Quel tizio li e il suo messaggio sono pericolosi, sono nichilisti”.
Può darsi che la sua sia una visione nichilista. Ma può anche darsi che la mente di tutti gli altri concepisca dio come ultimo rifugio del loro ego.
Anātman e il distacco
E allora a cosa serve sto non-centro, sto anātman, qual è la sua funzione?
Il concetto di anātman è nato in oriente come strumento di distacco.
- Distacco dal concetto di ātman (sé, anima), in modo da ricordarsi che è un concetto sulla realtà, non una realtà. È un’astrazione.
- Distacco dalle proprie concezioni di sé.
- Distacco dalle proprie concezioni di dio.
- Distacco dalle proprie concezioni sulla realtà, in genere.
Perché quando la mente si aggrappa a tali concezioni impermanenti, a tali astrazioni, si produce il seme di una forma di sofferenza che è legata agli stati condizionati dell’esistenza.
Ma stati condizionati da che cosa? Beh dalle concezioni stesse!
Il condizionamento da “concezione della realtà”, è una delle forme di sofferenza più difficili da riconoscere.
Perché è come portare gli occhiali da sole senza saperlo.
Quindi il mondo ti appare più scuro, ma in realtà sono le tue lenti ad essere scure.
Tu ti illudi di vedere una qualità, nel mondo, e invece è il mondo che ti rimanda la qualità delle lenti con cui lo guardi.
Il concetto di anātman, di non sé, di non dio quindi, non è la negazione di alcunché.
Piuttosto è uno strumento, che serve a conservare la lucidità mentale necessaria, il distacco, per riuscire a riconoscere le dinamiche di tale sofferenza, chiamata Samkhāra Dukkha“.
E’ quindi uno strumento di disidentificazione, persino dai concetti ai quali tendiamo ad aggrapparci.
E’ un prendere le distanze dalle proprie astrazioni, atto a darci l’opportunità di una prospettiva sulle astrazioni stesse, sugli assunti che ne derivano e sulle decisioni che prendiamo sulla loro base.
Un modo per riuscire a guardarsi dentro, e a riconoscere che, quali che siano i contenuti che vi si trova, non si è quello.
E che quindi si è e si può essere anche Altro.
Uno strumento per fare esperienza di quel qualcosa che, se esiste davvero, allora vive oltre la nostra mente, e che se chiamassimo sé, lo imprigioneremmo in una concezione, del sé.
Un qualcosa che però potrebbe anche non esistere. E che a contemplare questa possibilità, la nostra vita non dovrebbe minimamente esserne sconvolta.
Ecco perché invece è stato chiamato non-sé, anātman.
- Per poterne parlare senza farci ricattare dal linguaggio.
- Per potercisi riferire in un discorso, ma senza ridurlo a un trastullo del nostro ego.
Si sto dicendo che le concezioni sull’anima sono l’ennesimo artificio con cui l’ego cerca di darsi un tono spirituale.
Insomma il concetto di anàtman servirebbe a ricordare che, quale che sia quello che guardiamo, indossiamo delle lenti.
Infatti bisogna prendere i paroloni con le pinze, perché è forte la tentazione di usare la mente per approcciare l’imponderabile.
Ma a ponderare l’imponderabile si finisce col confondersi…e parecchio!
Perché io posso anche esclamare le parole “Intero infinito universo”, ma questo non significa certo che la mia mente possa diventare essa stessa l’intero infinito universo.
E se ci pensi questo problema si ripresenta ogni volta che esprimiamo un concetto imponderabile tipo:
- anima,
- amore,
- spiritualità,
- dio,
- brand.
Se poi uso gli aggettivi per piazzare nel discorso una palese incongruenza, come quella fra intero e infinito, vuol dire che ho proprio deciso di pretendere la licenza poetica!
E se ti guardi intorno, non ti sembra pieno di boriosi e pretesi “Leopardi” la fuori?
Il mercato delle seghe mentali è forse ad apice perpetuo?
Se vogliamo emozionare, emozionarci, suggestionare o suggestionarci, illudere o illuderci, queste parole suggestive sono idonee allo scopo.
E vanno benissimo se sei un cantautore, un poeta!
Ma se vogliamo relazionarci agli altri, fornire loro strumenti operativi per migliorarsi, laddove migliorarsi significa identificare schemi disfunzionali e crearne di funzionali,
allora sono parole che confondono, perché reificano, cosificano e assolutizzano concetti, che di fatto sono completamente imponderabili, e a cui per questo ognuno attribuisce necessariamente un significato diverso.
Perché diverse sono le esperienze che ha fatto nella sua vita e che usa per afferire significato a quei concetti.
Sono parole belle da sentire, altisonanti, “satviche”, qualcuno potrebbe persino dire.Ma sul piano operativo valgono meno di un rutto. Perché almeno, il rutto è congruo alla sua funzione, digerire.
I paroloni esotici sulla spiritualità invece sono incongrui con una sana spiritualità.La quale è atta a smettere di girare come criceti, nei labirinti celebrali che non hanno nessuno sviluppo pratico.
Il prezzo dell’attaccamento
E come fai a scendere dalla giostra, se sei attaccato alle parole che usi?
Attaccamento alle parole:
- Uguale, ostacoli alla reciproca comprensione;
- Uguale, rendere permanente ciò che è impermanente;
- Uguale, illudersi riguardo a una concretezza e ad una oggettività che di fatto sono soggettive esse stesse. Sono relative.
Se ti attacchi alle parole che usi, le investi di significati assoluti, e favorisci la perpetuazione dell’incomprensione e della confusione.
Se non te ne liberi, il risultato più probabile è che l’unica modalità relazionale che ti resta sia la coercizione sotto mentite spoglie.
E quindi giù di demonizzazioni del punto di vista altrui. Giù di magnificazione del proprio punto di vista.
- Il significato della parola anātman inteso come trucchetto per ingannare lo strapotere dell’ego, che ci abita la mente e il linguaggio;
- la parola non-sé, intesa come tentativo di creare un lessico per l’inter-operabilità dei concetti;
penso potrebbero essere molto utili nelle relazioni.
Cosa sto dicendo?Che quale che sia il concetto che vuoi esprimere:
- se esso per te è una bandiera, una forma di appartenenza,
- se quel concetto per te è come un luogo da difendere,
allora difficilmente potrà risultare valido per un’altra persona, che in quel senso di appartenenza non si riconosce.
Quindi, se non vai oltre il tuo punto di vista, dovrai escludere chi non è disposto ad abitarlo.
Perché questa è una storia che si ripete e rigorosamente senza un lieto fine?
Perché quando fai di un valore una bandiera, non ti chiedi:
- Perché lo stai facendo?
- Quali bisogni stai cercando di appagare?
- Se c’è forse un modo meno impattante di soddisfarlo?
Perché in quel momento non governi sui tuoi bisogni, sono loro a governarti.
Senza concepire le dinamiche di questa sorta di coproduzione condizionata del significato, di origine interdipendente del valore delle cose, di pratītya-samutpāda, in sanscrito,
e che per me, beninteso, uno può chiamarla anche Osvaldo, se gli è utile,
ciò che resta alla fine di ogni sforzo relazionale, alla fine di ogni conflitto, è solo una mortifera ed egoinomane competizione. Perennemente assoggettata alle nostre ferite, bisogni e pulsioni infantili.
E infatti…guardati un poco intorno.Sul lungo periodo, ci sono forse esseri umani che trionfano su altri?
A me risulta che schiattino tutti prima o poi. E cosa resta se non punti di vista che trionfano su altri?
È quello che accade quando le persone si mettono al servizio delle idee, invece che a produrre idee al servizio delle persone.
Sintesi e strumenti utili
Come la riassumiamo tutto sto popò di roba in una frase?Io propongo:
Ogni potenza è un’apparenza, che offusca la realtà delle sinergie.
È una frase che secondo me descrive un approccio alla realtà che ha davvero tantissimi risvolti pratici.
Risvolti che io penso di poterti aiutare a scoprire, soprattutto se li vuoi applicare alla tua comunicazione, alle tue relazioni, alla ricerca di correlazioni.
A tal proposito, ho preparato una meditazione guidata, che può aiutarti ad interiorizzare ed integrare questi concetti. E poi a prenderne le distanze.
E’ disponibile per tutti i miei Patreon,
e per chi si abbona al mio Podcast.
Aderire alle mie iniziative anche con piccole somme, forse può sembrarti un contributo irrisorio, ma per me significa avere le spalle coperte, affinché possa continuare a produrre liberamente contenuti interessanti.
In ogni caso ti invito a iscriverti al canale ed esplorarlo, per vedere se ti aiuta a vederci più chiaro. Ne sarei davvero felice.
Gagliardo eh!